Come è noto, violare una regola di condotta applicata in azienda significa esporsi a possibili sanzioni disciplinari. Ma attenzione: tra le conseguenze negative il lavoratore potrebbe anche perdere un’attesa promozione. Un danno duplice, quindi, ma chiaramente giustificato se ci si lascia andare a gesti e comportamenti che ledono organizzazione, produttività o buon nome del datore di lavoro.
È il caso di cui andremo a parlare a breve, con un dipendente che non soltanto è stato punito disciplinarmente, ma ha perso anche i punti utili a una progressione all’interno della gerarchia dei dipendenti.
Vediamo da vicino la sentenza n. 15027/2025 della Cassazione, che ha chiuso la successiva disputa tra l’uomo e il datore di lavoro e cerchiamo di capire qual è il perimetro da non superare mai, per scansare le conseguenze appena citate.
Indice
Doppia “punizione” per le aggressioni al collega
La vicenda oggetto della sentenza dei giudici della Suprema Corte è sicuramente curiosa, ma non certo un caso-limite. Un lavoratore di un importante gruppo bancario impugnava giudizialmente la sospensione di 10 giorni, irrogatagli come sanzione disciplinare conseguente all’essersi comportato in modo violento nei confronti di un collega, in un periodo di trasferta di lavoro.
Quest’ultimo, infatti, subì una serie di violenze psicologiche e fisiche nei giorni di permanenza a New York. Egli non soltanto contestava la punizione nel merito, ma anche e soprattutto la penalizzazione subita nel punteggio utile a ottenere una promozione – dunque migliori condizioni contrattuali ed economiche.
Ribaltando in parte la sentenza del tribunale di primo grado, la corte d’appello ritenne legittima la sanzione della sospensione perché, alla luce dei fatti e degli elementi di prova emersi in corso di causa, erano stati effettivamente violati i valori di correttezza e integrità cui si ispira l’istituto di credito.
Era stato violato infatti l’art. 4 del Codice della stessa banca, che prevede l’obbligo di astenersi da comportamenti incompatibili con questi valori e in grado di compromettere reputazione e immagine aziendale. Un dovere, questo, applicato e applicabile sia a situazioni all’interno che all’esterno del luogo di lavoro, e anche al di fuori dell’orario di lavoro.
Non solo. In appello la magistratura ritenne infondate le pretese del dipendente circa il diritto al trasferimento negli Usa e l’incarico dirigenziale, ma anche la stessa aspettativa di un punteggio superiore e utile all’avanzamento professionale.
Infatti, spiegavano i giudici, il punteggio in oggetto era stato giustamente decurtato dalla banca per i comportamenti tenuti, specchio dell’incapacità di gestione delle situazioni – invece richiesta a chi vuole essere promosso e lavorare come manager.
Per questo in secondo grado è stata ritenuta corretta la reazione datoriale contro il comportamento del dipendente. Questi, tuttavia, ritenendo di aver subito un’ingiustizia dalla duplice sanzione, ha scelto di ricorrere in Cassazione.
La conferma della Cassazione
Con la sentenza n. 15027 del 4 giugno 2025 i giudici di piazza Cavour hanno confermato l’esito della pronuncia di merito e ribadito che è legale il comportamento dell’azienda che, qualora vi siano gli estremi per l’addebito disciplinare, oltre a sospendere, utilizza gli stessi fatti per diminuire la valutazione del dipendente utile a salire di grado nel personale.
Infatti, compiere gesti aggressivi nei confronti di un altro lavoratore dell’azienda (anche se i fatti si sono svolti al di fuori dell’orario e del luogo di lavoro ordinario) è sempre, di per sé, un illecito disciplinare.
La Cassazione ha ribadito che situazioni come queste ledono i principi, fissati da codice etico e regolamento aziendale, di:
- correttezza;
- rispetto;
- integrità.
Quindi, detti gesti sono idonei a danneggiare gravemente l’immagine del datore di lavoro.
Le parole usate dai giudici di piazza Cavour sono molto chiare:
Le condotte in questione risultavano pertanto violative non soltanto del vivere civile, ma anche dei principi stabiliti dal Codice etico e dal Codice del comportamento che vietano comportamenti che si configurino come forme di offesa, di diffamazione, di molestia, di molestia sessuale (…) espressi in forma fisica, verbale o non verbale in grado di ledere la dignità della persona o creare un clima intimidatorio, ostile, umiliante, offensivo.
La Cassazione perciò ha sottolineato che la valutazione del giudice d’appello è stata espressa in coerenza con le regole interne all’organizzazione datoriale. C’erano validissime ragioni, insomma, per giustificare l’intervento disciplinare nelle modalità di legge.
Niente promozione per il lavoratore violento
Il punto che qui maggiormente interessa è che la Corte, nel confermare la pronuncia di merito, ha indicato che la sconveniente condotta tenuta dal dipendente, oltre a essere sanzionata a livello disciplinare, può comportare e comporta distinte conseguenze nella disciplina del rapporto di lavoro in essere.
Un comportamento aggressivo, ha sottolineato la Corte, porta a una valutazione negativa che evidenzia la scarsa attitudine dirigenziale del dipendente sanzionato. Giuridicamente è un passaggio interessante.
Infatti, secondo i giudici di piazza Cavour, questa non è un’ipotesi di cosiddetto bis in idem del potere disciplinare, ossia una duplicazione della sanzione vietata dalla legge. In casi come questo entrano sì in gioco considerazioni sugli stessi fatti oggetto di addebito disciplinare, dunque le aggressioni al collega, ma che riguardano diversi effetti di uno stesso comportamento e differenti aspetti della gestione del rapporto di lavoro.
Ecco perché nella sentenza Cassazione si legge che:
La corte territoriale, con riguardo alle conseguenze pregiudizievoli conseguenti agli addebiti in questione (trasferimento alla sede di New York e punteggio assegnato in sede di valutazione), in conformità con il tribunale, ha ritenuto inesistente il diritto al trasferimento e corretta la valutazione decurtata in ragione degli addebiti, in quanto effetto della scarsa professionalità manageriale del dipendente.
Per questo la Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dal lavoratore, ribadendo l’esito del secondo grado e il rispetto delle norme vigenti da parte dell’azienda.
Che cosa cambia con questa sentenza
La sentenza n. 15027/2025 della Cassazione ci ricorda un principio chiave per tutti i lavoratori: una condotta disciplinarmente punita può avere effetti multipli e distinti, anche sul piano della crescita professionale e della carriera.
In presenza di fatti gravi, come ad esempio aggressioni verbali o fisiche, molestie, abusi dei permessi (si pensi ad esempio al caso di quelli richiesti per il familiare con disabilità già in RSA), scorrettezze nei confronti dei clienti, offese a colleghi, risse in ufficio, danneggiamenti a beni aziendali o divulgazione non autorizzata di informazioni riservate, il dipendente non rischia soltanto una sospensione o altra misura disciplinare formale, ma anche la perdita di opportunità future: promozioni, trasferimenti ambiti, aumenti salariali o incarichi di maggiore responsabilità.
Concludendo, ogni violazione delle regole aziendali non comporta solo una reazione immediata, ma può influenzare negativamente anche le valutazioni a lungo termine e dunque la carriera del lavoratore nella sua interezza.